28 Mag UNO STEP BACK NEL PASSATO – La storia dei playground riminesi
In un momento storico come questo siamo spesso portati, data l’incertezza che caratterizza da ormai più di un anno il nostro presente, a fantasticare su quello che sarà il domani una volta che ci saremo lasciati il coronavirus alle spalle.
A noi piace pensare che un grande simbolo di ripartenza possa essere lo sport, da sempre sinonimo di aggregazione e inclusione, due aspetti della nostra vita che la pandemia ha pesantemente condizionato fino a ridurli ai minimi termini.
C’è un luogo della nostra città che da sempre unisce generazioni di sportivi che lì si ritrovano in nome della comune passione per un gioco.
Quel gioco che a Rimini, nel tempo, ha messo radici sempre più profonde sapendo attrarre un gran numero di persone, fino a diventare quasi una religione: il basket.
Nella nostra città i luoghi di culto per eccellenza della palla a spicchi sono i playground all’aperto, dove generazioni di ragazzi hanno dato libero sfogo al loro amore per la pallacanestro.
Oggi però alcuni di questi campi, segnati dal tempo, mostrano più di qualche crepa e necessitano di una ristrutturazione, così da poter essere pronti il prima possibile per riaccogliere i fedeli del “campetto”.
A questo proposito l’associazione Sarà ha pensato il progetto “Playground”, con l’intento di dare una nuova veste ai terreni di gioco maggiormente bisognosi di lavori di rinnovamento.
Questi luoghi, tendenzialmente molto frequentati, in alcuni casi si presentano non in perfetto stato.
Le pavimentazioni rovinate, i ferri dei canestri arrugginiti e le retine mancanti o gravemente danneggiate non sono mai state però un deterrente per gli appassionati della palla spicchi che hanno sempre e comunque riempito i playground. Ed è stata questa una grande e decisiva spinta al nostro progetto.
Non bisogna dimenticare inoltre l’importanza storica che i “campetti” hanno rivestito nella storia della pallacanestro riminese.
Proprio in quel contesto nell’ormai lontano 1947 è nato il Basket Rimini, allora denominato “Libertas”.
Questi terreni di gioco all’aperto nella nostra città sono sempre forieri di grandi storie, come quella sopracitata della “Libertas” Rimini che è cresciuta nel tempo regalando agli appassionati riminesi grandissime soddisfazioni e consolidando il sodalizio che la unisce al suo pubblico, diventando sempre di più, nel corso degli anni, una realtà importante nell’universo cestistico del nostro paese.
I nostri playground però sono stati testimoni di un’altra grande “nascita” cestistica, essendo stati il teatro dei primi passi di un ragazzo che già da giovanissimo li frequentava, ponendo proprio lì le prime basi di una carriera straordinaria che lo ha visto successivamente consacrarsi ad autentica icona del basket azzurro.
Il ragazzo di cui vi sto parlando ha lasciato impresso varie volte il suo marchio nella storia della pallacanestro italiana.
Una di queste proprio nella sua Rimini, quando, il 26 gennaio 1995, giocò una partita di assoluta onnipotenza offensiva e ne mise a referto 87 siglando il record italiano, tutt’ora imbattuto, di punti in una sola gara.
Credo abbiate già capito di chi si sta parlando, ovverosia di Carlton Myers.
Carlton ci ha raccontato la sua esperienza al campetto spiegandoci la particolare importanza che ha rivestito nella sua formazione cestistica.
“I playground all’aperto rappresentano in assoluto il mio primo contatto con il basket. Ho iniziato a giocare ai Salesiani, con il mio amico Mauro Catalini frequentavo l’ultimo anno di scuole medie e da allora non mi sono più fermato.
Ho frequentato diversi campi a Rimini, i Salesiani, San Nicolò, quello delle “Decio Raggi”, via Tripoli e non solo.”
Carlton, quanto ha inciso nel tuo percorso di formazione cestistica l’esperienza del campetto?
“È stata di fondamentale importanza, ho imparato tanto. Sui campetti riminesi si giocava un basket di livello molto alto, era davvero complicato vincere le partite. Di solito si giocava 3 contro 3 o anche 1 contro 1 e spesso capitava di trovarsi davanti giocatori militanti in serie A o B, oltre ad amatori di assoluto livello, ma nel playground la storia era diversa, non contava la categoria in cui giocavi ma solo quanta predisposizione alla fatica avessi e soprattutto quanta voglia di prevalere sull’altro ti animasse, bisognava dare tutto per non essere costretti a lasciare il campo a chi veniva dopo di te. Chi perdeva andava a casa.”
C’è qualcuno che hai affrontato sui campi riminesi che aveva qualcosa in più degli altri?
“Il mio amico Sandro Bucchi aveva davvero qualcosa di speciale, si distingueva da chiunque altro grazie alle sue spiccate doti offensive.
Le sue capacità in attacco erano veramente spaventose, poche altre ho potuto toccare con mano una tale potenza fisica coadiuvata da così tanta resistenza, era unico, tanto da poter essere uno dei pochi che poteva dire di avermi superato nell’uno contro uno.
Credimi dopo le tante sfide contro di lui sono arrivato in Serie A ampiamente preparato a tutte le situazioni in cui l’attaccante ti puntava per arrivare al ferro.
E’ il più forte che abbia mai affrontato nel frangente sopra descritto, arriverei quasi a dirti che, era dotato quanto Darren Daye se non di più.”
Hai qualche aneddoto interessante riguardante la vostra esperienza ai campetti?
“Oltre ai tanti tornei vinti, ricordo con piacere quando andavamo al campo della base americana della Nato, a Miramare a sfidare gli americani che giocavano lì.
Dovevamo adeguarci a un’intensità fisica non comune, tipica dei playground, d’oltreoceano.
Sandro era il bersaglio principale di tutti i contatti fisici più duri, ma riusciva a segnare ugualmente.
Spesso, dopo aver mosso la retina, si rivolgeva ai nostri avversari dicendo “And one”, per chiedere il libero supplementare dopo il canestro, i nostri rivali però, erano restii a concederglielo.
Il contatto, per essere punibile con il fallo, doveva essere particolarmente violento.”
Vigeva una regola sintetizzabile in “niente sangue, niente fallo?”
“Non si arrivava al sangue ma hai centrato il punto.”
Oltre alla preziosa testimonianza di Carlton Myers, ne abbiamo raccolta un’altra di un personaggio che al pari del campione sopracitato era un vero e proprio habitué dei campetti cittadini, dove ha alimentato la fiamma della passione cestistica fino a farla divampare. Tutto questo sempre sotto al medesimo canestro, che lo ha visto crescere con immutato amore per il basket.
Il suo nome è Roberto Bracci, uno di quelli da annoverare nelle fila dei giocatori amatoriali che alla palla hanno sempre dato del “tu”, tanto da poter condividere lo stesso campo con chi poi è entrato nella storia della pallacanestro riminese e nazionale.
Roberto, quale, tra i playground di Rimini era quello che eri solito frequentare di più?
“Senza dubbio il mitico “Cortilone” ha sempre rappresentato un punto di riferimento per me e per tutti quelli con cui giocavo ma non era l’unico, infatti anche il campo delle scuole “Decio Raggi” era una meta abituale.”
A che età il campetto è diventato la tua seconda casa?
“Il primo incontro è avvenuto quando avevo 13 anni, impazzivo per la pallacanestro e passavo le mie giornate nei luoghi di cui ti parlavo, diventavano teatri di sfide appassionanti, vere e proprie battaglie, combattute 3 contro 3, contraddistinte dall’amore per il gioco e da un sano agonismo che solo il calare del sole e la conseguente poca visibilità potevano interrompere.
La sera invece, una volta usciti dal campo si trascorreva insieme con quelle stesse persone con cui condividevi le fatiche sul terreno di gioco durante la giornata.
Sono stati davvero unici che ho portato avanti nel tempo, fino ai 45 anni ho continuato ad andare a giocare e quando al campetto mi lasciavo trasportare completamente dalla passione.
Mia moglie più di una volta è stata costretta a venirmi a chiamare per farmi tornare a casa.”
C’è qualche ricordo in particolare che vuoi raccontare?
“Ce ne sono davvero tanti, è difficile sceglierne uno, se proprio devo, non posso non citarti il periodo estivo quando al venivano a giocare i giocatori di serie A come Ferroni, Morri, Bonaccorsi e Ruggeri era emozionante poter affrontare quelle stesse persone che, fino a poco tempo prima, osservavi dagli spalti del “Flaminio”.”
So che anche tu conoscevi Sandro Bucchi e lo hai visto all’opera. Che aneddoti hai su di lui?
“Sandro era il classico giocatore da campetto, imprendibile quando ti puntava, se ti trovavi tra lui e il canestro eri spacciato, sapevi che in qualche modo avrebbe segnato inoltre era molto competitivo e odiava perdere.
Ricordo quando partecipammo a un torneo nazionale e riuscimmo ad arrivare alla fase finale che si teneva a Roma e giocammo contro dei ragazzi di Padova molto dotati per la pallacanestro.
Subito dopo la palla a due, Sandro si presentò agli avversari piazzando quattro triple che valsero un parziale di 12 a 0.
Uno dei nostri avversari mi guardò, sgranando gli occhi, aveva capito che lo aspettava un pomeriggio complicato, e mi chiese in che squadra giocasse, io sorridendo gli risposi che veniva dal campetto e proprio in quel contesto sprigionava tutto il suo talento.”